Lo chiamavano Jeeg Robot. Ma non è il titolo di un film, bensì il soprannome di uno dei giocatori più talentuosi e controversi visti a Reggio sul nascere degli anni Novanta. Marco Ricci nella nostra città ci ha chiuso nel 1994 una carriera che in vent’anni lo ha visto indossare le canotte di Roma (sua città natale), Caserta, Rimini e appunto Pallacanestro Reggiana. A 56 anni ora vive a Ravenna dove si occupa di attività commerciali in ambito bioedile.

Ricci, ha chiuso con il basket?

Completamente. L’unico legame che ho con il mondo della pallacanestro è il mio barbiere a Cervia che è lo stesso dove vanno Dalla Salda e Frosini.




Non guarda neanche più le partite in tv?

Solo quando non riesco a prendere sonno. Il basket italiano è finito con la legge Bosman che ha dato il colpo di grazia ad un movimento già fragile.

Eppure lei negli anni Ottanta è stato uno dei giocatori italiani più promettenti, l’erede di Meneghin pagato fior di quattrini da Caserta.

Questa storia del Ricci strapagato è una “favola”. In realtà, nel mondo “dilettantistico” di allora, essendo io il primo giocatore proprietario del cartellino, e quindi il primo svincolato del basket italiano, venivo visto e trattato come una “mosca bianca”. E questo me l’hanno fatto pagare.

Marco Ricci oggi

Con chi ce l’ha?

Con i dirigenti federali di allora, Rubini in primis e la sua corte milanese. Sono riusciti a distruggere il grande lavoro per la crescita del movimento, anche come squadra nazionale, fatto fin dagli anni ’60-’70 da dirigenti come l’avvocato Coccia, gente che aveva davvero a cuore il basket italiano. Ma anche i giornalisti hanno le loro colpe.

Di cosa l’accusavano?

Aldo Giordani e la testata giornalistica fondata anche con sponsor americani tifavano per i giocatori d’Oltreoceano incuranti delle “agevolazioni” di cui fruivano atleti come ad esempio Mc Adoo, fantastico cestista, che però faceva sempre passi in partenza secondo le regola FIBA. Di me dicevano che ero una “testa calda”, oppure quando facevo belle prestazioni contro gente del calibro di Joe Barry Carrol, Radovanovic, Robbins, Thompson, Sojurner, era solo perché loro erano “fuori forma”. In realtà ero un signor giocatore. Ho fatto 500 partite in serie A, 80 in nazionale, sono stato il primo giocatore col procuratore e anche il primo giocatore ad essere messo fuori squadra.




Come arrivò a Reggio?

Bernardi aveva bisogno di un giocatore che stesse vicino a Mike Mitchell senza offuscarne il legittimo ruolo di leader nella squadra facendo crescere nel contempo Reale e Casoli. Presero me, vedi che non ero poi così una “testa calda”?

Il primo anno, in maglia Sidis, fu una cavalcata trionfale culminata con la promozione in serie A trascinata da Mitchell e Brown.

Tony era il giocatore cardine di quella squadra, un grandissimo difensore e passatore. Mike era un “fucile sempre carico”, uno su cui potevi contare. Certo, aveva il pallone “con l’elastico”, però aveva l’umiltà e l’intelligenza di capire quando non era in giornata. In questo molto diverso da Oscar con cui ho giocato a Caserta per cui lo sport di squadra era…fantascienza!

Marco Ricci con la maglia di Caserta nel 1986

Che rapporto aveva con il “Professore”?

Credo mi riconoscesse una certa esperienza in una squadra di giovani. Ricordo un episodio divertente. Andammo a Firenze e lui era sempre raddoppiato e spesso triplicato con la marcatura. Quella sera fece due assist, una rarità! Al rientro negli spogliatoi gli chiesi se potevo provargli la febbre perché aveva fatto due passaggi. Lui mi rispose che non era vero, gli era solo sfuggito il pallone. Ridemmo tutti, era davvero un bel gruppo.

Non fu così l’anno successivo.

Ci tengo a chiarire come andarono le cose. In estate Bernardi mi chiese un parere sull’acquisto di Fantozzi, che conoscevo bene. Dissi che era meglio per il gruppo continuare con Lamperti, ma alla fine presero Fantozzi rovinando lo spogliatoio. Dopo 17 partite io e Fantozzi fummo messi fuori squadra, ma nessuno ha ancora avuto il coraggio di dire, a me e ai tifosi, il perché.

Con i suoi calzettoni al ginocchio era un idolo in via Guasco.

Ah, sono sempre stato contro le mode. Tenevo su i calzettoni semplicemente perché mi era comodo così, date le fasciature alle caviglie. Del look me ne fregavo. Dei tifosi ho un buonissimo ricorda, Reggio è una bella piazza. Aveva una buona società con qualche eccezione.




Ricci fuori dal campo: è vero che è un incallito fumatore?

Ho sempre fumato, anche quando giocavo. E non ero l’unico. Penso a Slavnic, Meneghin o a Donadoni. Quell’anno a Caserta lui fumava persino negli spogliatoi tra il primo e il secondo tempo. In quella squadra l’unico che non fumava era Oscar…

Torniamo all’inizio: perché la chiamavano Jeeg Robot?

Sono sempre stato innamorato di quel fumetto fin da bambino. Il primo anno a Caserta, dormivo con i ragazzi delle giovanili nella foresteria che aveva sede di fronte a TeleCaserta che trasmetteva le repliche del cartone: non me ne perdevo una. Così cominciarono a chiamarmi Jeeg Robot. E qualcuno continua a chiamarmi così.

Gabriele Cantarelli