La leggenda del santo “tiratore”. Da Bob Morse a Della Valle, passando per Grattoni e Mc Intyre, sul parquet di via Guasco i tifosi della Pallacanestro Reggiana hanno potuto ammirare da vicino le gesta di alcuni tra i migliori tiratori del nostro campionato. Uno di questi fu Paolo Boesso.
Sbarcò a Reggio nella calda estate del 1990, fresco di scudetto (e premio come miglior sesto uomo del campionato) conquistati con la Scavolini Pesaro. A 56 anni, Boesso ora fa il manager in un’azienda di sua proprietà e con il basket ha chiuso. Ma se capitate dalle parti di Pavia, sua città d’adozione, e andate sui campi del circolo tennis cittadino, probabilmente lo troverete con la racchetta in mano visto che il tennis è diventata la sua passione sportiva principale. Agli annali restano comunque due campionati disputati con la maglia della Sidis e 1.014 punti messi a segno con il 42% da tre, la specialità della casa.
Boesso, partiamo proprio da quell’estate del 1990. Come arrivò a Reggio?
Direi abbastanza casualmente. Rifiutai di firmare un biennale con Pesaro ed ero a un passo dalla Benetton Treviso. In quel frangente fu molto bravo Mario Ghiacci a inserirsi. Reggio cercava il sostituto di Grattoni e mi fece pressione, così decisi di venire alla Sidis dove mi fermai per due stagioni.
Molto positivi da un punto di vista personale anche se i risultati della squadra sul campo furono altalenanti. Peccato perché soprattutto il primo anno avevamo uno “squadrone”. Ad un certo punto ci ritrovammo secondi in serie A1 e conquistammo il pass per le final four di Coppa Italia eliminando addirittura la Benetton di Kukoc e Del Negro! Perdemmo a Treviso, ma al ritorno via Guasco era una bolgia e trascinati dai tifosi e da Reddick eliminammo quella che era a tutti gli effetti una tra le più forti squadre europee. Fu una partita memorabile.
Dal secondo posto alla retrocessione in A2: quale fu il motivo?
Molto semplice. Proprio all’indomani della partita con Treviso si fece male Mike Reddick. Per noi era un punto di riferimento e trascinatore, grande uomo e giocatore immenso. Lì sbagliò la società sostituendolo con Glouchkov. Con tutto il rispetto, una scelta incomprensibile. Lo dissi in faccia al presidente Prandi. Al di là del valore tecnico, ci serviva un altro tipo di giocatore. Quello fu il punto di svolta della stagione.
L’anno dopo fu invece una lenta e anonima agonia in seconda serie. Anche lei, “cecchino” implacabile, a un certo punto si inceppò.
Avevo problemi famigliari con mio padre che non stava bene. Per un tiratore capita che in certi periodi il canestro sembri una vasca da bagno, mentre in altri diventa piccolo piccolo. In questi casi bisogna soltanto ritrovare la tranquillità necessaria lavorando tanto con la mentalità di migliorarsi sempre, anche a 30 suonati. Ho sempre praticato una ferrea cultura del lavoro.
Pavia, Pesaro, Reggio: le è mancato il “salto” in una grande città?
Credo di aver avuto la carriera che ho meritato. Considera che in quegli anni nel ruolo era difficile emergere. Anche in nazionale, per esempio, ero chiuso da mostri sacri come Antonello Riva e il ct di allora Sandro Gamba non era solito allargare le convocazioni come per esempio si fa adesso. Ero stato convocato per le Universiadi in Siria, ma per ragioni politiche non si disputarono.
A proposizione di nazionale, che ne pensa del caso Gallinari?
Danilo ha sbagliato. Ma conoscendolo so che si è pentito un secondo dopo di quello che aveva fatto. Certo, per essere un’amichevole, ho notato che avesse le mani degli avversari un po’ troppo addosso. Sono dell’idea che gli arbitri dovrebbero tutelare di più il talento.
A lei è mai capitato un episodio simile?
No, pugni non ne ho mai dati. Ma non ero certo un mite, soprattutto nei confronti degli arbitri. Considera che ai miei tempi erano soltanto due i direttori di gara, ma non mi sembra che anche in tre le cose siano migliorate di molto. In Nba ed Eurolega vedo che c’è molto più dialogo.
L’avversario più ostico incontrato sul parquet?
Paolo Vazzoler era un gran difensore, pulito e corretto. In generale ho avuto modo di confrontarmi con gente del calibro di Michael Ray Richardson e Danilovic, grandi campioni.
Non ho dubbi, Darren Daye. Credo sia uno dei più forti mai venuti in Italia, sembrava sbarcato dalla Luna. Un talento infinito, spropositato, era impressionante sia in allenamento che in partita. Quando ne aveva voglia, naturalmente, come tutti gli americani. Ho visto giocare suo figlio Austin, un po’ ricorda il papà anche se giocano in ruoli diversi.
C’è un giocatore che le ricorda il Paolo Boesso di un tempo?
Per l’atteggiamento direi Belinelli anche se ovviamente ad un livello molto più alto del mio. Restando nel nostro campionato forse Simon di Milano o Flaccadori di Trento per citare un italiano. Anche Tonut mi piace parecchio, gioca senza paura proprio come facevo io.
Il basket italiano però non se la sta passando molto bene…
Mah, da Porelli a Petrucci credo che di strada, al contrario, se ne sia fatta parecchia. Non mi piace l’atteggiamento di questi burocrati che sembrano più interessati a scaldare poltrone che non a fare il bene del movimento. La vicenda che vi ha visto coinvolti lo scorso anno sull’Eurocup è emblematica. Dal punto di vista tecnico il livello è molto calato, soprattutto in A2. Manca la voglia di investire sui giovani italiani, a parte Reggio e poche altre società, le big non hanno una “cantera” e puntano sugli stranieri spendendo un sacco di soldi.
Ha ancora amici nel mondo del basket?
Sono sincero, ho mantenuto pochi contatti. Zampolini, Magnifico, Pessina… Il fatto di non essere su Fb o Instagram credo non aiuti, ma i social non mi invogliano. Preferisco vivere piuttosto che condividere. E giocare a tennis.
A proposito, non le ho chiesto chi preferisce tra Federer, Nadal e Djokovic?
Sono tutti e tre grandi campioni, ma Federer è il numero uno.
Gabriele Cantarelli