Ora, a 54 anni, il buon Mike ora vive ad Atlanta dove “predica” basket insegnando ai giovani della high school.
Per alcuni tifosi reggiani è stato insieme a Bouie il miglior pivot (o centro per i più giovani, o 5 per i giovanissimi) della storia biancorossa. Ma, a differenza del buon Roosevelt, Michael “Mike” Reddick ha avuto a disposizione poco più di un campionato per conquistare il cuore dei reggiani. Trentatrè partite in serie A1 con la maglia delle Riunite nel 1989-90 (16.9 punti e 8 rimbalzi di media), soltanto 12 con la Sidis nel 1990-91 (11.9 e 9 rimbalzi di media) prima di un brutto infortunio che di fatto ne segnò a soli 28 anni la fine della carriera. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente nella sua città natale, Atlanta, dove il 54enne Reddick, vive con la moglie Deborah insegnando educazione fisica nella locale South Atlanta High School. Di cui è anche, ovviamente, allenatore della squadra di basket maschile.
Reddick, dica un po’ ai giovani tifosi biancorossi che non l’hanno mai vista giocare, che tipo di cestista era? Sono orgoglioso di essere stato un “lungo” a tutto tondo: facevo punti, prendevo rimbalzi, stoppavo (high di 6 contro la Milano di Meneghin e Mc Adooo, ndr), sapevo difendere e la passavo anche bene. Se proprio devo individuare i miei talloni d’achille, diciamo che non ero un gran tiratore da fuori e che con il palleggio ero un po’ imbranato.

Come arrivò nella nostra città? Le mie prime esperienze in Europa le feci in Francia, Belgio e Olanda. Ma sapevo che a quei tempi, parlo della fine degli anni Ottanta, il campionato italiano era uno dei più competitivi così accettai la proposta di Reggio senza pensarci due volte pur non conoscendo la vostra città.
Che ricordi ha di Reggio? La ricordo come una cittadina di classe con un raffinato livello culturale. Il cibo era speciale. Ho imparato ad apprezzare tante cose vivendo a Reggio. Ma quello che più mi colpì era la fame di basket che aveva la gente: i tifosi venivano al palazzo condividendo la nostra voglia di vittoria e di essere una squadra vincente. Non nego che alcune partite le abbiamo vinte grazie a loro, il nostro sesto uomo in campo.
Due stagioni sul parquet, dal 1989 al 1991: cosa le hanno lasciato? Ricordi belli e tristi. Mi sono trovato bene con la società, la squadra, gli allenatori, i tifosi. Sono ancora convinto che saremmo potuti diventare una delle migliori quattro squadre in Italia. Ma se ripenso a quell’infortunio al ginocchio mi viene da piangere. Mi feci male verso la fine della prima stagione convivendo con il dolore per una decina di partite: provai di tutto, persino la pranoterapia. In estate i medici mi tennero fermo sei, interminabili, settimane. Lavorai duramente perché ero convinto che avremmo potuto fare un grande campionato. Partimmo alla grande, ma dopo la partita di coppa Italia con la Benetton dovetti fermarmi nuovamente. Fui operato ad entrambe le ginocchia. Per due volte provai a riprendermi, ma senza farcela. La rabbia più grande era non poter più dare il mio contributo alla squadra. E sono certo che avrei potuto dare ancora tanto alla Pallacanestro Reggiana.
C’è qualche partita in particolare che le è rimasta nel cuore? Certo. Ma sono un disastro con la memoria e non sono il tipo che tiene in un cassetto gli articoli di giornale o le statistiche personali. Sì, so di aver segnato più di 30 punti in diverse occasioni (ne fece anche 40 contro Desio, ndr), ma da buon pivot dipendevo molto dai compagni: il nostro “game plan” era che ognuno di noi facesse tutto il possibile per arrivare alla vittoria.

L’unica eccezione era Joe Bryant, a lui era concesso di “strafare”. Beh con Joe abbiamo trascorso bellissimi momenti sul campo, lui era un talento naturale e una macchina da punti. Lo ricordo come una bella persona, con una splendida famiglia e quel ragazzino di 11 o 12 anni che in casa palleggiava anche quando si sedeva a tavola. Sono contento della carriera che ha fatto Kobe, uno dei più grandi di sempre. E orgoglioso di averlo conosciuto quando era ancora un ragazzino.
E’ rimasto in contatto con qualche ex compagno di squadra? Purtroppo no. Ma grazie al web ho seguito la Pallacanestro Reggiana in questi anni. Mi considero ancora un tifoso di Reggio e ho esultato per le vittore degli ultimi tempi. Avanti così, ma vincetela eh qualche finale ogni tanto!
Nella sua carriera c’è la nazionale Usa, ma manca l’Nba, ha qualche rimpianto? Ti svelo un aneddoto. Nell’estate del 1989 fui invitato al camp dei Phoenix Suns. Mi chiesero di aggregarmi a loro per il campionato, ma rifiutai perché pochi giorni prima avevo dato la mia parola alla Pallacanestro Reggiana. E la mantenni venendo in Italia. Sono un tifoso dei Lakers fin da quando ero bambino, l’Nba la guardo in tv. Ma solo i play off, la regular season non mi interessa. Preferisco le partite Ncaa.
Lei ora è un apprezzato educatore e allenatore: cosa insegna ai suoi ragazzi? Sul campo sono un maniaco dei “fondamentali”. Senza di questi non si diventa giocatori competitivi e vincenti. Ma il lavoro più importante e complicato è quello che facciamo fuori dal campo dove cerchiamo di trasmettere valori forti come l’onestà, l’importanza di prendere le giuste decisioni nella vita diventando persone e cittadini esemplari.

E’ mai più tornato in Italia? Mai. Dopo Reggio ho giocato ancora qualche anno disputando una manciata di partite con Varese e Venezia e finendo poi la mia carriera nel 1995 in Turchia dove vinsi il quinto campionato in dieci anni di attività. Decisi di smettere lì. Era ora di dare una svolta alla mia vita.
Lo sa, vero, che se tornasse a Reggio incontrerebbe ancora molti tifosi “pazzi di Reddick”? Questo mi rende davvero felice e orgoglioso. Pensare in così poco tempo di aver fatto breccia nel vostro cuore significa tanto per me. Vuol dire che avete capito che ho dato tutto me stesso, che ero davvero convinto avremmo potuto fare grandi cose. Reggio è stata una tappa importante della mia vita. Vorrei salutarvi uno per uno, ma purtroppo non ricordo una parola in italiano. Anzi, no. Una me la ricordo e ve la dico con tutto il cuore: Grazie!
Gabriele Cantarelli